Roni Roduner coltiva sin dal 1964 l’arte della scultura e del disegno.
Attento, dotato di un’estrema sensibilità, Roni Roduner è una sintesi di razionale e di passionale; nella sua persona convivono l’architetto meticoloso e l’artista libero.
Per Roni Roduner disegnare è interrogarsi, riflettere nella solitudine del suo studio, sfuggendo da ogni condizionamento. Una solitudine attiva, la sua, non contemplativa. I suoi Black Bodies (b.b.), ai quali lavora con enorme pazienza dal 2003, sono sviluppati dal disegno legato all’architettura minimalista, alla struttura pura e, recentemente, a forme “amorfe” che si rivelano in una solida staticità.
Nelle migliaia di tratteggi ad inchiostro e matita e le migliaia di pennellate in acrilico nero si leggono gli elementi di un’accalorata discussione, tutta interiore e individuale: la tela diventa l’agorà, il luogo di scambio “amorfo” in cui si compie il dialogo critico, mutevole e trasformativo in risposta alla sovraorganizzazione formale dello spazio vitale controllato.
C.V.R
Biografia
1944, nasce ad Altstätten, San Gallo, Svizzera

1951 – ’61, scuole dell’obbligo, Altstätten

1961 – ’64, apprendistato come disegnatore edile presso lo studio dell’architetto Hans-Rudolf Dietschi a Buchs, San Gallo

1964 – ’68, lavora come progettista presso gli architetti Hans Zwimpfer e Walter Maria Förderer a Basilea. Contemporaneamente frequenta la Kunstgewerbeschule di Basilea
1968 – ’69, borsa di studio della Città di Basilea per uno stage presso gli scultori François Stahli a Parigi e Giò Pomodoro a Milano.

Dal 1969, sposato ed in seguito padre di tre figli. 
1969 – ’71, attività artistica e progettazione presso l’architetto Prof. Dolf Schnebli ad Agno

Dal 1971, atelier in proprio ad Arzo

1971 – ’76, assistente all’ETH di Zurigo presso i professori Walter Custer, Benedikt Huber e Ernst Studer.

1976, Ottiene il REG-A a Zurigo.

1978 – ’86, docente di teoria del colore e disegno tridimensionale presso il CSIA (Centro Scolastico per le Industrie Artistiche) a Lugano

1986 – 2009, docente di progettazione e tecnica della costruzione presso la SUPSI (Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana)
Diversi viaggi di studio in città europee, in Africa, America e in Asia con prolungati soggiorni in Nepal.

Mostre collettive
1969, Basilea, Kunsthalle, “Für Veränderungen aller Art”. 1973, Soletta, Scuola d’arte mestieri, “movimento 22”. 1975, Lugano, Villa Malpensata, “movimento 22”. 1976, Barcellona, Centre d’estudis d’art contemporani, “Premi internacional de dibuix Joan Mirò”. 1976, Pamplona, Caja de Ahorros de la Navarra, Scelta premio Barcellona. 1977, Locarno, “movimento 22”. 1978, Bigorio, “movimento 22“. 1979, Arzo, Galleria Imholz. 1985, Sion, Musée cantonal des Beaux-Arts, “Artistes tessinois contemporains”. 1993, Madrid, Museo Español de Arte Contemporaneo, “Ticino hoy”. 1994, Locarno, Galleria SPSAS. 2017, Must Gallery Lugano. Sergio Emery & Roni Roduner, “Tracce”.
Mostre personali
1978, Bosco Luganese, Galleria del bosco. 1979, Lugano, Galleria Giuliana Pelli. 1998, Milano, Galleria AAM. 2013, Lamone, Galleria-Studio di architettura Meyer-Piattini ”Black Bodies“. 2014, Chiasso, Galleria Mosaico “Black Bodies”. 2014, Friborgo, Galleria Hofstetter “Black Bodies”. 2023, Villars-Sur-Glâne, Maison-galerie de Monique van der Roer et Luke Gillon, "Art et Architeture — un Monologue".
​​​​​​​Roni Roduner, la pittura come suono – di Prof. Dr. Graziano Martignoni
I “Black Bodies” di Roni Roduner sono opere che tratteggiano su grandi tele in un’infinita e quasi inesauribile ripetizione, piccole figurine stilizzate, corpi appena accennati in nero e grigio, come fossero note musicali, corpi minuscoli, segni di presenza umana, come se la figura umana stessa non fosse ancora stata o forse già sparita dalla superficie del mondo. Potrebbe sembrare a prima vista una figurazione cieca, eppure apre spiragli di luce sul mondo che sta per formarsi o per sciogliersi. Un’opera complessiva iniziata nel 2003, opera sorprendente, che genera stupore. È emozionante sosta per chi non si accontenta di vedere, ma cerca una visione. Una visione che sgorga dalla tela (apparentemente sempre uguale a se stessa) se solo si accetta di guardare oltre ciò che la tela sembra voler mostrare o forse celare per meglio lasciar vedere. Sorprendente, non solo per l’indubbia qualità scritturale, ma per la capacità di far accadere qualcosa, un evento di mondo, non ancora raffigurato, ma capace di far tornare il suono originario della sua nascita, quando ancora le forme non erano date e tutto era un ribollire pulsionale.
L’opera di Roduner appare così come una sorta di spartito musicale delle origini, alla ricerca di quel suono primigenio da cui tutto è venuto. Roduner aveva iniziato a stilizzare i suoi “Black Bodies” iscrivendoli in un ordine architettonico, forse partendo dalla sua professione di architetto, ma poi quelle stesse piccole immagini è come se gli avessero preso la mano, espandendosi sulla tela, occupandone spazi, disfacendo le forme precostituite, segnando una temporalità in ebollizione. Questa mi appare la via dell’opera di Roduner, che riduce al minimo i segni ripetendoli all’infinito. Nelle ultime opere poi tutto sembra quasi esplodere con l’apparizione di “bulbi” pronti ad eruttare segni di vita, come quando in primavera i primi fiori bucano il terreno venendo alla luce. Quasi una sorta di “sala parto” del mondo di cui il segno grafico mostra il battito. Il mondo così rappresentato dalla prima opacità si mette in movimento verso qualcosa che ancora non sappiamo e forse verso qualcosa che nemmeno l’artista sa ancora. Lo spettatore è trascinato dentro la tela, che al primo sguardo non ha nulla di apparentemente seducente, chiamato, appena lasciatosi privare da immagini precostituite, all’evento. Tutto sembra al primo sguardo rigido, ripetitivo e invece tutto sta accadendo, è la vita stessa che si mette in movimento. Ma da dove viene tutto ciò?

Bisogna per meglio comprendere dire due brevi cose sul percorso di questo architetto-artista, nato come artista negli atelier di François Stahli a Parigi e di Giò Pomodoro a Milano e poi divenuto architetto, docente per molti anni al Dipartimento di architettura della SUPSI. Un artista, che ha ritrovato oggi, per dirla con James Hillman, dopo la lunga e brillante stagione architettonica, il suo più autentico daimon, che lo aveva visto prima che costruttore di forme, artista. Vi è però qualcosa nella sua biografia di ancora più rivelatore del suo lavoro. Sono le sue esplorazioni in Oriente, lungo le vie dell’Himalaya e la vicinanza con l’architetto giapponese Tadao Ando. Entrambi espongono, pur nella loro ovvia distanza, lo sguardo al silenzio e dietro il silenzio di quelle montagne e delle linee architettoniche di Ando, che sembrano giocare con la luce, alla palpitazione originaria, che Roduner riproduce sulla tela. La ripetizione del gesto dei suoi “Black Bodies” sembrano infatti rievocare i “Mantra” del mondo vedico e tantrico. “Mantra”, parola formata dalla radice sanscrita “man” (in latino mens) che significa pensare e dal suffisso “tra”, che indica uno strumento .
La ripetizione dei suoi “Black Bodies” è qui un vero e proprio “strumento della mente” oltre ciò che possiamo vedere e nello stesso tempo, come nel rituale antico, un atto di nascita del mondo, una vera e propria “cosmogenesi”. Le tele di Roduner sono così da guardare con stupore verso ciò che sta per accadere. Un’arte, quella di Roduner, che obbliga ad una fatica dello sguardo, ma che prova ad andare, al di là dallo sterile concettualismo, oggi tanto di moda, alla radice più essenziale delle cose.
Le suggestioni di Roduner  – di Gian Franco Ragno
Solitamente la critica d’arte cerca delle ascendenze, delle lunghe corrispondenze nell’opera di un autore. Forse intimamente convinta che sia possibile collocare un artista in una cartina immaginaria di stili, in una sorta di geografia impossibile. Più utile ed arricchente, cercare di ripercorrere un sentiero artistico, che spesso è anche umano, per arrivare non tanto a punti fermi quanto a suggestioni di carattere diverso, non solo limitate alla disciplina dell’arte.
Questo è il caso di Roni Roduner, artista ticinese d’adozione, architetto dalla formazione – negli anni Cinquanta in Svizzera Orientale – ancora di sapore umanistico; legata sì alla pratica, ma al contempo arricchita da suggestioni di ampio spettro culturale; una formazione in cui è confluita, va detto, anche la vitalità culturale degli anni Sessanta, con soggiorni a Parigi e Milano. Roni Roduner ha mantenuto questi interessi per tutta la sua carriera d’architetto, in cui ha progettato costruzioni austere ed essenziali, capaci di adagiarsi sul territorio senza stravolgerne la forma preesistente.
Questa dimensione di mestiere apre connessioni con le riflessioni dello studioso Richard Sennett, allievo di Hanna Arendt. Egli indaga su uno degli aspetti più importanti del nostro presente, ovvero sulla dimensione etica del lavoro rivalutando la prassi, l’esperienza pratica anche da un punto di vista concettuale, vista come quella capacità di aprire un problema, di esplorarlo, di indagare la sua materia e le sue finalità. Applicarsi a un manufatto con dedizione, termine che Sennett usa spesso, implica un qualcosa in più del semplice dovere esecutivo. Tutto ciò alla luce anche delle degene- razioni di un’economia speculativa.
La digressione appena svolta ci porta a comprendere con più esattezza il lavoro di Roduner. Egli è ancora artigiano nel senso più nobile del termine, avendo cura del minimo dettaglio del suo lavoro. Dal taglio della carta alla preparazione della tela, dal temperare le matite all’esercizio quotidiano del proprio fare. Ad analizzare la sua opera da vicino, scopriamo che il foglio subisce solo una prima leggera preparazione, consistente in alcune linee orizzontali - quasi che queste fossero un binario, le righe di uno spartito, i leggeri solchi di un aratro. In seguito, la matita tratteggia, con un gesto fortemente ripetuto, concentrato e rituale, il vuoto entro le condizioni date dalle due linee parallele. Un lavoro, per quanto semplice e ripetitivo, è la ricerca di un equilibrio che non è solo artistico, ma che implica concentrazione e quella dedizione che abbiamo ricordato in precedenza. La stessa matita richiama ad una perenne progettualità, risponde all’atto consumandosi e chiede di essere ruotata per continuare il suo percorso. Il risultato è quello di un’opera quasi intangibile, una ragnatela fitta di segni di graffite, una sorta di nebbia in cui lo spettatore cerca un appiglio, un superficie. Una via ferrata.
Alcuni lavori appaiono più veementi, si impongono maggiormente allo sguardo prendendo come materia del segno l’acrilico; altre riempiono un profilo in una sorta di bulbo, lasciando come l’impressione, quasi il ricordo, di trovarsi di fronte ad una sorta di «Stele di Rosetta». Si tratta nell’insieme di opere minimali dove è già stato epurato tutto ciò che risulta non essenziale, come lo era stato precedentemente nella sua architettura.
Certo, sono opere che suggeriscono un altro concetto caduto in disuso, fuori moda; la disciplina. Max Frisch, nel Libretto di servizio, la definì come la «coscienza di disporre di sé stessi» che proprio nell’imposizione di sacrifici, produce risultati inattesi. Naturalmente, come in tutta l’arte contemporanea, è lo spettatore il vero attore della visione. Senza l’ausilio di soggetto né titolo, è lui stesso responsabilizzato a rintracciare il senso.
Concludendo, il risultato ultimo a mio avviso non è strettamente pittorico, bensì concettuale; nelle tele vi è la riuscita di un’aspirazione universale negli artisti (dal Futurismo alla Land Art), ovvero quella di far coincidere opera ed esistenza dell’autore, esprimere il binomio arte e vita. Il loro spessore consiste nell’aver saputo distillare in una forma data un lungo percorso di insegnamenti, esperienze e vissuto.
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